Prima e dopo la seconda guerra di ‘Ndrangheta l’avvocato Giorgio De Stefano era il burattinaio; quello che comanda dentro la famiglia De Stefano dagli anni Settanta fino ad oggi”. Sono accuse precise quelle mosse dal collaboratore di giustizia Antonino Lo Giudice, detto il “Nano”, sentito oggi al processo ‘Ndrangheta stragista, in corso davanti la Corte d’Assise di Reggio Calabria, che vede come imputati il capo mafia di Brancaccio Giuseppe Graviano, e il boss Rocco Santo Filippone, entrambi accusati per gli attentati ai Carabinieri avvenuti tra il 1993 e il 1994 in cui morirono anche i due appuntati Garofalo e Fava.
In quella che è stata la seonda giornata dedicata al suo esame, Lo Giudice è tornato a riferire delle riunioni in cui sarebbe stata decisa la strategia stragista in Calabria, a cui avrebbero partecipato Giuseppe De Stefano, Filippone, i Graviano ed altri soggetti. “Facciamo attenzione – ha detto il teste rispondendo alle domande del procuratore aggiunto di Reggio Calabria, Giuseppe Lombardo – Peppe De Stefano è manovrato dall’avvocato Giorgio De Stefano. E sulla riunione di Oppido è corresponsabile anche lui, perché prende la decisione per forza. Prima di andare a quella riunione, Giuseppe si consultò con Giorgio. Era lui che decideva la persona che doveva andarci”.
L’attentato ai carabinieri
Lo Giudice è tornato a parlare delle confidenze ricevute da Consolato Villani, killer assieme a Giuseppe Calabrò dei due carabinieri, e dal padre di quest’ultimo, Giuseppe. Un rapporto, quello tra Lo Giudice ed i due Villani, non solo saldato dalla parentela, ma anche da una stretta relazione criminale. Consolato Villani, a detta del pentito, era un suo “uomo riservato”, mentre il padre era una sorta di “consigliere”.
Proprio in virtù di quel rapporto, dopo che fu emessa la sentenza di primo grado nel processo in cui Villani e Calabrò furono condannati come esecutori materiali dell’omicidio dei due appuntati Fava e Garofalo, cercò di aiutarlo. “Villani voleva un altro avvocato su cui poter fare affidamento – ha riferito il “Nano” – Gli dissi che lo avrei portato dal mio, ossia Lorenzo Gatto, che mi difendeva dal 2000. L’avvocato accetta e gli fa firmare la nomina. A quel punto Gatto disse anche che, qualora le cose fossero andate male in appello avremmo fatto ricorso in Cassazione e lì ci avrebbe indicato chi contattare, ossia l’avvocato Giorgio De Stefano. ‘Lui ha amicizie in Cassazione – ci disse – così vediamo di fare tornare indietro il processo’”.
Secondo Lo Giudice quel colloquio sarebbe avvenuto intorno al periodo in cui un altro collaboratore di giustizia, Gaspare Spatuzza, aveva iniziato a parlare facendo riferimento agli omicidi dei carabinieri. “Ricordo che commentammo – ha detto oggi in aula –C’era la speranza, secondo Consolato Villani, che lui sarebbe potuto uscire da quella situazione. Poi però gli confermarono la condanna a 30 anni ed uscì di testa, volendo mettere un’auto con bombole di gas di fronte all’abitazione dei suoi parenti a Ravagnese. Io, però, gli consigliai di rimanere calmo”. Di quell’idea di contattare Giorgio De Stefano, Lo Giudice parlò anche con Giuseppe Villani che lo avvertì: “Ci disse di stare attenti che questo era un po’ tragediatore e che poteva essere un boomerang. Giuseppe Villani predicava prudenza per gli interessi che c’erano dietro il fatto dei carabinieri. C’erano troppi interessi dietro quel fatto e, secondo noi, quel tipo di condanna poteva stare bene a De Stefano, potendo essere lui portatore di un contro interesse”.
Ci fu anche un’altra occasione in cui Lo Giudice avrebbe direttamente visto l’avvocato De Stefano, ex consigliere comunale e cugino del noto boss Paolo De Stefano: “Quando con mio padre, negli anni Ottanta, andavamo a casa di Paolo De Stefano c’era lui che si appartava e parlava con le persone. Lui era il puparo era l’avvocato anche quando viveva l’altro Giorgio, quello ucciso del 1977. Mio padre e mio zio mi dicevano che era un massone che apparteneva sia ai neri che alla loggia di Licio Gelli“.
Poi ha riferito anche un altro episodio che, a suo avviso, sarebbe emblematico del ruolo che De Stefano aveva per gli affari: “Stavamo cercando un locale per l’apertura di un negozio e andammo nello studio di Gioacchino Campolo. Stavamo aspettando, quando dal suo ufficio uscì Giorgio De Stefano. Volle sapere perché fossimo lì e di che cosa avessimo bisogno. Gli dissi che c’era un negozio che ci interessava e che avremmo chiesto a Campolo se avesse potuto darcelo. Lui ci salutò dicendoci di fargli sapere se avessimo avuto bisogno. Accadde poi che Campolo non si mise a disposizione ed a noi apparve una cosa negativa il fatto di aver parlato di quello con l’avvocato De Stefano. A nostro giudizio fu proprio lui a dire a Campolo di non mettersi a disposizione con noi”.
Sempre parlando dei rapporti che il penalista De Stefano avrebbe avuto con gli ambienti criminali Lo Giudice ha riferito di aver appreso in carcere, parlando con Pasquale Tegano e Orazio De Stefano, che “l’avvocato aveva delle persone con cui si relazionava anche dentro Cosa nostra. Parliamo di persone a livello di Riina, Provenzano, Messina Denaro e anche Bagarella. Lo appresi mentre eravamo nel carcere di Reggio Calabria. Seppi anche che, durante la guerra di ‘Ndrangheta, si pensò di ucciderlo nel suo studio di Roma a causa del fatto che ci fu uno sbilanciamento di potere. Poi dopo tornò tutto come prima”.
Parlando del ruolo di Rocco Santo Filippone il teste lo ha descritto com “un soggetto di grande spessore criminale” e che il padre gli disse che “era uno dei capi della Tirrenica, una persona di rispetto”.
Il terzo memoriale
Di tutte queste cose il teste avrebbe lasciato una traccia scritta anche nel terzo memoriale che aveva iniziato a scrivere poco prima del suo arresto dopo la “fuga” dalla località protetta. In principio era una bozza di poche pagine, poi fu ultimata e consegnata alla Dda. “Nel terzo memoriale volevo parlare della massoneria e personaggi che si celavano dietro tantissimi affari – ha detto – Mi volevo preparare per quello che stava per avvenire. Volevo parlare con lei e con il dottor Cafiero de Raho“. Nel corso della sua deposizione il teste ha anche spiegato il motivo per cui nei primi memoriali aveva anche ritrattato:“Era un memoriale diretto alla ‘Ndrangheta, ma anche ai servizi ed a quelle persone che credevo prima o poi potessero uccidermi. Avevo paura e c’è stato un momento che non sapevo da chi guardarmi. Non c’era altra via d’uscita. Non mi sono consultato con nessuno prima di scriverli e il primo l’ho indirizzato ai giudici del processo Meta perché volevo far sapere alla ‘ndrangheta che stavo tornando indietro”. A detta di Lo Giudice, dunque, quel memoriale sarebbe stato utile per informare sia i capimafia ma anche i servizi del fatto che avrebbe mantenuto il segreto anche sugli episodi riguardanti i presunti carabinieri che lo avvicinarono mentre si trovava in località protetta intimandogli di non parlare di Giovanni Aiello, alias Faccia da mostro.
“Avevo il timore perché io non conoscevo il mondo che c’era dietro Aiello – ha aggiunto – c’era stato quell’episodio che riguardava me ma anche la mia compagna di allora. Lei era stata licenziata dal suo datore di lavoro dopo che questi aveva ricevuto la visita di alcune persone, che si erano presentate come carabinieri, che gli dissero che era meglio se la licenziavano perché il suo compagno era un ex boss e che rischiava anche attentati. Questo episodio avvenne nel 2014 ma lo ricollegai subito al precedente”.
Quel rapporto con Giovanni Aiello e la conoscenza con Mimmo Lo Giudice
Rispondendo alle domande del pm Lo Giudice ha anche parlato dei rapporti avuti con Demetrio Lo Giudice, detto “Mimmo”, al vertice della famiglia che opera vicino al Santuario di S. Antonio. “Era una costola dei Libri e Mimmo era il punto di riferimento di Domenico Libri per qualsiasi tipo di lavoro”.Successivamente il pentito ha spiegato che il Mimmo Lo Giudice di cui parla non è quello soprannominato “u boi” ma si tratta di un soggetto che “aveva la Santa già ai tempi di Ciccio Canale. Io avevo il Padrino, ma non ricordo se lui avesse un grado superiore al mio”. Alla domanda del pm su come fosse possibile che mai nessuno ha parlato di quest’ultimo come un uomo di vertice Lo Giudice ha spiegato che questi “era un riservato di Domenico Libri e non si sbandierava chi fosse. Lo faceva solo in certe occasioni”.
A detta del teste lo conoscevano sia Consolato Villani che “Faccia da mostro”: “Aiello lo conosceva. Me ne parlò dopo che entrammo in sintonia, mi fece il suo nome. Mi disse che erano molto amici e che gli passava delle informazioni. Capitò che mi parlasse di lui per due o tre volte. Capii subito a chi faceva riferimento. Mi disse che si conoscevano già da molto tempo, perché la famiglia Libri aveva contatti, tramite lui, con Aiello. Sì, anche i Libri avevano i rapporti con Aiello. Si scambiavano informazioni. Se non ricordo male, mi disse che Demetrio gli chiedeva armi e tritolo”.