Ogni anno, puntuale come le decorazioni natalizie riposte in soffitta, il giorno dopo l’Epifania, l’autostazione di Cosenza diventa il teatro di un dramma collettivo. Valigie accatastate, abbracci sospesi tra il “non andare” e il “vai che ce la farai”, sguardi che alternano l’ansia di chi parte alla malinconia di chi resta. È il rito delle partenze, un copione immutabile: stessi luoghi, stessi gesti, stesse valigie, sempre troppo cariche di tutto, tranne che di certezze. E, puntuale come il giorno della partenza, immancabili arrivano i commenti. C’è chi ironizza per sdrammatizzare, chi osserva con tristezza pensando alle case che si svuotano e ai paesi che si spopolano, e chi si lascia travolgere dalla rabbia. Rabbia per una Calabria che sembra incapace di offrire opportunità, dove il lavoro è precarietà e il “domani” è sempre rimandato. Partire o restare, questo è il dilemma.
Restare significa accettare un presente fatto di precarietà, disoccupazione e un futuro incerto, almeno quando la “restanza” è passiva. Ma restare può diventare un atto rivoluzionario se chi sceglie di rimanere decide di lottare per cambiare le cose. Per chi vede in ogni partenza una perdita immensa, restare in Calabria diventa, di fatto, un atto di resistenza. Non è una scelta di comodità, ma un tentativo di ricucire il tessuto sociale di una terra che si sgretola. Partire, d’altra parte, significa lasciare tutto: famiglia, amici, radici. È un atto di coraggio, una decisione pesante, perché non è una scelta autentica, ma una necessità travestita da opportunità. Partire, allora, diventa anche una forma di lotta. Partire significa rifiutare un destino che sembra già scritto. È il bisogno di costruirsi un futuro dignitoso, anche a costo di vivere lontano da casa. Ogni viaggio verso il Nord è un grido di denuncia, un’accusa verso un sistema che non funziona.
Insomma, chi parte, con il suo andare, denuncia le falle di un sistema incapace di trattenere i suoi figli. Chi resta, con il suo rimanere, tenta di colmare quei vuoti. Entrambi sono parte dello stesso destino: due facce di una terra che ha bisogno di chi va via per svelarne i limiti e di chi rimane per reinventarne il futuro. E così, mentre i pullman si allontanano, lasciando dietro di sé una scia di polvere e malinconia, rimane una certezza: il rito delle partenze e la scelta di restare rappresentano entrambe forme di resistenza. Visto così, la vera domanda non è se sia meglio partire o restare, ma cosa si possa fare, insieme, per trasformare la Calabria in una terra dove partire non sia più una necessità e restare diventi una scelta consapevole, ricca di possibilità.