Di Aldo Maria Cupello.
“La politica è sangue e merda, la politica è per gli uomini il terreno di scontro più duro e più spietato”, tuonava così Salvatore Formica, detto Rino, alla fine degli anni Novanta. Classe 1927, Formica fu più volte ministro della Repubblica Italiana nonché membro di spicco del Partito Socialista Italiano, quando ai tempi nei corridoi della sede di Via del Corso sbattevano i tacchetti di Bettino Craxi. Una frase, quella ad apertura di questo pezzo, che negli anni non ha fatto altro che creare scalpore e argomento di discussione nei talk show nazionali, considerando il calibro politico di colui che la esclamò. Con il passare del tempo, quella locuzione riesce – per i più – a far accapponare ancora la pelle. Sono termini duri, “sangue” e “merda”, due termini che vengono fatti ricondurre all’arte più antica e nobile della storia: la politèia, come la definivano i greci. Eppure, documentandosi anche sommariamente, risulta di semplice comprensione come di “nobile” – al giorno d’oggi – ci sia ben poco nel mondo politico. Ed è forse da Mani Pulite in poi, e con gli annessi casi seguenti, che il concetto di politica come “insieme di valori e ideali”, nonché “servizio al popolo”, è andato man mano a sgretolarsi. Ne è, purtroppo, conseguenziale una risposta negativa nella realtà: la non curanza del voto.
Più emergono scandali nell’alta politica, più i rappresentanti vengono arrestati, più – semplicemente – crollano le promesse da campagna elettorale e più ne corrisponde l’aumento di sfiducia da parte del popolo nei confronti degli uomini in giacca e cravatta che, quotidianamente, innalzano slogan e fanatismi vari, abbandonando in prima persona l’idea di “giusta politica”. È il caso di una palla di ferro che da troppi anni ci portiamo al piede, quale quella dell’astensionismo. Non vi è una data precisa che possa permetterci di posizionare, temporalmente, questo fenomeno, ma chiaro è che da qualche anno a questa parte le urne stanno diventando mero luogo di gossip tra gli scrutatori, con attimi di partitelle a briscola alternati da “avanti” e “prenda la matita”. La colpa non è di certo di chi siede dall’altra parte della scrivania ma di chi, in quelle urne, non ci mette proprio piede.
A tal proposito, fanno triste scuola i dati delle elezioni dello scorso 3 e 4 ottobre, specie in Calabria. Se, difatti, in tutta Italia solo il 54.69% dei cittadini è andato a votare, nella Regione dei bronzi di Riace si sceglie di non scegliere. Solo il 44.36% degli aventi diritto – 1.890.768 gli elettori calabresi – ha deciso di prendere la matita in mano, confermando niente più che il dato delle regionali del 26 gennaio 2020, quando l’affluenza si era assestata al 44.23%; una crescita, pertanto, quasi inesistente. Allora eccoci qua, calabresi ignoranti, bigotti, apartitici e asettici dalla vita civile. Ma è un sì e un no: l’astensionismo non nasce per caso. E non è tantomeno un caso che, sulla Regione Calabria, non si sia mai versata la serietà della quale si necessitava e si necessita tuttora. Per la Calabria, duole dirlo, non hanno mai deciso liberamente i calabresi, bensì i colletti bianchi da Roma che, complice una sanità commissariata da 10 anni, hanno avuto spazi e vie di accesso più che aperte. La colpa – a patto se ne voglia individuare e darne una – non è però esclusiva del Made in Palazzo Chigi o Madama, quanto anche da certi stessi calabresi che dall’alba della Repubblica sono inchiodati nelle sedie di velluto o – qualora, loro malgrado, manchi – riemergono puntualmente nella prima campagna elettorale utile. E di esempi, appellandoci al libero pensiero, ne abbiamo: basti ricordare chi, questa estate, ha fatto piovere in mare da un elicottero delle mascherine chirurgiche elettorali, chi ha deciso di ripresentarsi alla Presidenza, chi ha pensato bene di retrocedere a Consigliere Regionale constatando il fallimento in linea presidenziale o chi, ancora, fa riecheggiare il proprio nome dal 1985, semper fidelis. Alla luce di ciò, non è appellabile una piena responsabilità al cittadino medio che si reca a votare, quando il problema – alla base – risiede nei nomi da scrivere su quel pezzo di carta.
Ciò viene, a malincuore, avvalorato dal compagno morboso dell’astensionismo: il trasversalismo. Non è, difatti, raro imbattersi in candidati prima targati PCI e poi presentati FDI, come non lo è trovarsi – a livello generale – nel grande marasma della crisi del modello bipartitico per affacciarsi ad un multipartitismo incontrollato e mistificato; l’elettore, qualora voglia affiancare la linea di un voto consapevole e non consigliato, trova un numero spropositato di partiti, movimenti, gruppi culturali e pensatori dell’ultimo minuto improvvisatisi politologi. Si tratta di un problema, dunque, di organizzazione formale, protagonismo e narcisismo politico, nonché scarsa cultura valoriale; manca, ancor più alla base, il concetto del “perché”, “per chi” e “per come”, si agisce in politica. E la risposta, quantomeno per una volta, dovrebbe andare ben oltre l’aspetto economico. Quanto scritto finora, come se non bastasse, non può che rafforzarsi se immerso in un contesto territoriale in cui il voto di scambio risulta la norma, mentre quello privato l’esatta antitesi.
Arrivati a questo punto, una soluzione non la si vuol permettere di avanzare, ma un consiglio spassionato ai futuri candidati e ai presenti eletti lo si vuole dare: leggere Hannah Arendt, più precisamente “Vita activa. La condizione umana”. Ne emerge un interessante spunto di iniziativa e riflessione: “Il buon politico, la buona politica, è dove le parole e azioni si sostengono a vicenda, dove le parole non sono vuote e i gesti non sono brutali, dove le parole non sono usate per nascondere le intenzioni, ma per rivelare la realtà, e i gesti non sono usati per violare e distruggere, ma per stabilire relazioni e creare nuove realtà”.
D’altronde, da dottrina greca, “la politèia esiste solo se esiste la giustizia”, giustizia nelle anime e nella città, perché l’ingiustizia rende lupi, non uomini, schiavi, non liberi.
E in Calabria, di schiavitù, ne abbiamo sentito fin troppo parlare. Si vuole essere, dunque, fiduciosi che un voto libero possa ribaltare schemi già scritti, con la serenità di andare alle urne e non con l’intenzione di “scegliere il male minore”. È ora che, di contro, vi sia un “bene maggiore”. Ne abbiamo bisogno.