di Saverio Di Giorno
Un ennesimo episodio in Calabria dove mafia e religione vengono a contatto. Come in un macabro caleidoscopio bene e male vengono a contatto senza che appaia strano. Nella terra dove le montagne cadono nel mare, il cielo e gli abissi si toccano. Yin e yang. Tradizioni antichissime vanno a braccetto con una delle mafie più potenti e all’avanguardia nel mondo.
Può apparire strano solo visto dall’esterno, ma qui vigono altre regole. Dalle nostre parti per capire chi detiene il potere in un paese basta andare in una processione e guardare chi porta la statua del patrono. Quali strade fa la processione e sotto quali finestre passa. Oppure basta andare in una piazza e guardare come stanno sedute le persone e come si comportano le une con le altre.
Quello che ha fatto forte la ‘ndrangheta è proprio il potere dei simboli e dei riti. Chiunque faccia un viaggio per i paesini simbolo (Platì, Polsi, San Luca) vedrà ragazzini che a 12 anni sembrano anziani. Si chiamano tra loro “compare” e “comare” ma sono griffati e ascoltano i rapper Sfera E basta (a proposito: il 16 agosto sarà in concerto alla Summer Arena di Soverato…), Capo Plaza e altri.
Le donne, curatissime nell’aspetto, dagli occhi scuri e profondissimi come le gole dell’Aspromonte osservano secolari regole sociali e le affiancano a vizi e abitudini del terzo millennio. I giochi degli sguardi corrispondono alle gerarchie del potere. Ogni atteggiamento, ogni gesto non è lasciato al caso, ma è un rimando ad un simbolo. La ‘ndrangheta è quella mafia che ha condannato un suo “adepto” perché viaggiava con il gomito fuori la macchina ed esibiva troppo la sua ricchezza lasciandosi andare ai vizi: era segno di debolezza, di non sapersi dare regole e rispettarle, di lascivia.
Chi non conosce questo insieme di simboli si meraviglierà sempre di questi episodi, ma soprattutto dimostrerà di non aver compreso ancora una volta il dramma che vive la Calabria. Nella regione più povera d’Italia, la ricchezza non è mediata né graduale e non vi si accede per meriti o scalate sociali; ogni parola quindi cambia di significato come attraverso un prisma deformante: il rispetto e l’onore dipendono dal successo sociale e questo dipende da che cosa sei disposto a fare per ottenerlo. Là dimostri la tua forza e il tuo valore. Cosa sei disposto a sacrificare. Nessuno te lo dà. Te lo devi prendere.
È una rilettura violenta del capitalismo, che quasi o forse dimostra cosa succede quando il mito del potere e della ricchezza giunge in territori poveri. Dove i valori vecchi si amalgamano con una cultura nuova individualista. Le parole dei Padri non si abbandonano perché sono le radici forti dell’albero sotto il quale si riuniscono ogni anno a Polsi. Così solo chi è degno e rispettabile può portare sulle spalle la Madonna… per quanto riguarda la Madonna lei perdona, vede e provvede, ma soprattutto se ha deciso di condannare o salvare un motivo ci sarà.
Questo modo di pensare ha anche riflessi meno folkloristici e più pratici. Il carcere è messo in conto da un boss, è quasi un periodo di formazione. Anzi resistere al carcere è una prova di forza. Sanno perfettamente di vivere o in clandestinità o in carcere, ma è un gesto di superiorità: lui è boss perché ha saputo prendere quello che voleva e le relative conseguenze, tutti gli altri resteranno più in basso solo per paura. I politici e i prestanome che non finiscono in carcere non sono più furbi, ma solo più deboli e hanno bisogno che qualcuno lo faccia. Questo spiega perché molte egemonie non cambiano nonostante le retate e i rapporti di potere rimangono intatti.
Accanto alle azioni della magistratura bisognerebbe affiancare interventi politici, approfondimenti di natura economica e soprattutto azioni culturali. Gli arresti e le retate non bastano.