Di Mariarosaria Valente

Testimone di una storia che radica le sue origini in un passato più che remoto, il Museo della Memoria storica é lì, incastonato come un prezioso nel cuore del centro storico di Belvedere Marittimo, tra l’odore dell’umido dei vicoli stretti e uno scorcio di mare all’orizzonte.

Una macchina del tempo che ripercorre impeccabile ogni epoca e che solletica tutti, dai più arguti studiosi ai semplicissimi curiosi. Ad Egidio Rogati, belvederese, avvocato e giornalista pubblicista dal 1976 al 2010, che dobbiamo i natali del museo fondato nel 2007 ed oggi ubicato in un locale a pochi metri da Piazza Palmento.

Figura di spicco negli studi in merito alle origini del nostro paese, Rogati ha scelto liberamente di mettere in vetrina tutto il materiale reperito negli anni, rendendo ogni angolo di questo locale una vera e propria cronaca di eventi e storia quotidiana. Discendente dell’antico casato Perez (per’altro vantante la parentela con il re Carlo V), di origine iberica e approdata a Belvedere per “l’appetibilità del territorio”, Egidio ha allestito magistralmente ogni dettaglio rinvenuto, tracciando così le orme di una civiltà in cui contado e nobiltà non sono assolutamente due rette parallele…anzi. L’amor loci gli fu ereditato dal padre Giuseppe, anch’egli giornalista, al quale attribuiamo vari articoli pubblicati tra il 1934 e 1976 presso le più rinomate testate giornalistiche nazionali; inestimabile divulgare, dunque anch’egli lascio traccia dell’allora cronaca di Belvedere, di cui rimangono svariati frammenti di carta oggi esposti in due dei 7 pannelli del museo contenenti inoltre una sfilza di cartoline e foto d’epoca numerate con annessa descrizione. Dietro la porta d’ingresso, non ci si può aspettare che fare un lungo salto nel tempo, messi davanti ad un’immane collezione di oggetti appartenuti alla classe contadina, risalenti tutti tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, a cui si aggiunge un’intera vetrina espositiva di oggetti funerei rinvenuti dalle sepolture brezie tra gli anni ‘50 e gli anni ‘80 del secolo scorso nei pressi di Capotirone (nel cui territorio sorge attualmente la chiesa dedicata alla Vergine Santissima del Rosario di Pompei) e in località Pantana. Gli oggetti, raffiguranti ampolle, crateri, un gioiello e un frammento di ascia votiva, sono copie conformi agli originali esposti presso il Museo archeologico nazionale della Sibaritide e quello di Reggio Calabria. Varcare la soglia di quella porta é come dimenticarsi dello smartphone a favore di un’antica macchina fotografica che immortala vecchie ancelle per refrigerare l’acqua, il “cantaro” in terracotta (anticamente utilizzato per raccogliere gli escrementi), i bicchieri in vetro con i sali omaggiati dalla storica farmacia Rogati e le “ciramele” per la sicurezza delle case monumentali. Due damigiane, un fiasco, un braciere in rame, ferro da stiro a carbone, una prestigiosa macchina da cucire, un contenitore per olio in alluminio sono tra i tanti utensili che raccontano storie di vita quotidiana fatta di coltura, cucina, e antichi passatempi. Dalla “cavudara”, il pentolone in rame nel quale venivano cotti i pasti (e dalla cui grandezza è possibile dedurre la numerosità delle famiglie dell’epoca), alla “cavetta” (o “gavetta”) una sorta di scrigno in alluminio utilizzato dagli uomini di casa per conservare il piatto caldo da portare a lavoro; dai due tipi di macinino per la tostatura e la macinazione del caffè ai panieri a cui legare lo spago per “passarsi la roba” da un piano all’altro dei palazzi, ci si sposta su pezzi storici di artigianato locale: tra questi spicca inosservata la raffigurazione del volto di una donna cotto in forno a legno (forno oggi conservato in località Acquaro), lucidata e adornata da un paio di pendenti datati inizio ventesimo secolo. In merito alla scultura non manca la memoria a Vincenzo Nappi, scomparso da oltre trent’anni e legato da un forte legame di amicizia al dott. Rogati che lo ricorda così: “Quando aprii il mio studio, mi regalò queste tre sculture, forse lucidate con la cromatina per le scarpe e rappresentanti il Calanco, la torre di Paolo Emilio e il Castello successivamente abbellite con pupazzetti di uomini e donne in festa”. A completare questo quadro bucolico a tratti fiabesco vi è l’esposizione di conserve, esemplari di un variegato genere di uva prodotto in territorio belvederese come la “moscarella”, la “malvasia” (che essiccata al sole veniva trasformata in “Zingrillivo” liquore dal gusto particolarmente dolciastro), l’ “uva tinta”, l’uva nera e l’uva “Olivella” propria dei terreni dell’omonima contrada. Un salto in epoca remota lo si fa ancor di più se ci si imbatte nell’ abito da “pacchiana”, esposto come ombelico della struttura quale costume tradizionale del luogo; appartenuto ad una donna di nome Teresa (vissuta nel XIX secolo, ma di cui ancora oggi ignoriamo il cognome), questo pezzo di storia popolare fu conservato presso la famiglia Fazio che lo donò al museo nello stesso anno della sua fondazione. Ampio spazio è dedicato alle pubblicazioni di storia locale e territori limitrofi, così come alle fotografie in bianco e nero che riportano alla vista una Belvedere quasi irriconoscibile, se paragonata all’urbanizzazilne dei tempi odierni; da vaste distese di campi incolti, alla piantagione dei cedri e la sua lavorazione, fino ad una piazza Amellino sobria ma gremita con lo scatto di un “postalino” la cui fortuna di salirvi a bordo era concessa a pochi. La memoria storica che al museo ne conferisce la dovuta “etichetta”; è pura e immacolata storia nel quale nessun aspetto, fosse anche quello meno “memorabile” è tralasciato. La cura con cui Egidio Rogati conserva quest’inestimabile patrimonio monumentale e fotografico, rende la struttura un vero e proprio sito culturale da sostenere come eterno testimone della ricchezza custodita nei meandri più sconosciuti del nostro paese.

Di Mariarosaria Valente

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