REGGIO CALABRIA Nella sua prima vita è stato un killer, un affiliato di rango dei clan della Piana negli anni Novanta, un falso pentito. Poi, un importante collaboratore di giustizia. Minacciato, è tornato sui suoi passi, negando tutto quanto in precedenza dichiarato. «Ma adesso che sono in carcere nessuno mi può toccare» dice Gaetano Albanese, ascoltato oggi come testimone a Reggio al processo “‘Ndrangheta stragista”, dove non ha esitato a raccontare in dettaglio le strategie dei clan per inquinare i processi e le curiose miopie che per anni li hanno favoriti.
FALSO PENTITO «Ho iniziato la mia collaborazione nel febbraio 1995. Eravamo in carcere e si diceva che qualcuno di noi doveva collaborare, ma come falso pentito. Io – afferma, rispondendo alle domande del procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo – sono stato uno dei primi a partire e dire cose contrarie a quelle che diceva Annunziato Raso». Fra i principali killer del clan Molè, autore – dice Albanese – «di oltre 40 omicidi», Raso con le sue dichiarazioni rischiava di seppellire sotto decenni di carcere i vertici dei clan della Piana, per questo andava disinnescato. «Me lo ha chiesto Rocco Molè, Carmelo Stillitano di Gioia Tauro, Rocco Cananzi», spiega Albanese.
LA SVOLTA «All’epoca ho detto cose un po’ vere e un po’ no. Dopo qualche mese ho iniziato a collaborare seriamente e dire la verità su tutto quello che era successo». Una svolta – mormora a malincuore – dettata dalla paura che i suoi figli percorressero la sua stessa strada. A raccontarla sono i capi di imputazione per cui è stato condannato e snocciola svogliatamente di fronte alle insistenze del pm: «Estorsione, armi, droga, mafia, tutto».
ASCOLTO SELETTIVO Quando ha iniziato a parlare davvero con i magistrati, Albanese si è dimostrato quanto, se non più pericoloso di Raso, sia per i Piromalli-Molè, padroni della Piana, sia per i Mancuso, che dominano il Vibonese. Espressione di una cosca satellite dei “pianoti” radicata fra Candidoni, San Pietro di Caridà e Dinami, zone cerniera fra il territorio dei clan di Gioia Tauro e quello delle famiglie di Limbadi, il pentito era in rapporti con tutti. E di tutti si è dimostrato in grado di parlare. Anche perché in quegli anni era sia in affari con i Mancuso sia assiduo frequentatore della “cascina” dei Molè. «Lì – afferma – si andava a prendere ordini, c’erano riunioni, si tenevano i latitanti».
LE RIUNIONI CON I SICILIANI Ed è tanto dai Mancuso, come dall’assidua frequentazione di quella cascina, che Albanese ha saputo delle riunioni che i vertici dei Mancuso e dei Piromalli- Molè hanno avuto con i siciliani. «C’erano state tre o quattro riunioni e loro avevano partecipato ad alcune di queste riunioni. Una era stata fatta a Oppido Mamertina o Melicucco, altre nella Piana di Gioia Tauro. Diego diceva che avevano partecipato Peppe o Luigi Mancuso. Erano riunioni contro lo Stato», racconta.
IL MAGISTRATO LO SA «Io ho messo insieme le cose – dice rispondendo alle domande del procuratore aggiunto Lombardo – perché io avevo assistito ad una riunione alla cascina Molè. Ne avevo parlato con il magistrato D’Agostino di Catanzaro, ne abbiamo parlato a lungo, ma nessuno mi ha più chiesto niente al riguardo. Noi andavamo dalla parte di dietro, dove c’erano i latitanti, e facevamo le riunioni. Quel giorno Peppe Mancuso, Mommo Molè e Pino Piromalli si sono allontanati e sono andati forse a Melicucco per incontrarsi con i siciliani. Ho saputo con chi dopo, al carcere di Vibo».
«MI SONO DOVUTO PROTEGGERE» Ma le sue dichiarazioni non sarebbero state ignorate solo in quell’occasione. Durante il processo Genesi – spiega- «mi hanno trovato anche se ero sotto protezione e mi hanno obbligato a dire quello che poi sono andato a dire. L’ho fatto presente a chi di dovere e a nessuno è fregato niente. Per questo ho dovuto dire che non era vero quanto detto sui Mancuso». Chiamato a deporre in quel procedimento, «lo stesso in cui sono finite le mie dichiarazioni sui siciliani» specifica, Albanese si è rifiutato di rispondere, limitandosi a rifiutare di confermare quanto in precedenza dichiarato sui Mancuso. «Io sono in carcere da tre anni e mezzo perché mi hanno trovato delle armi in casa. Le ho prese quando mi hanno chiamato a deporre in questo processo. Mi sono dovuto armare per guardarmi la pelle». Ma adesso è tornato a parlare.
Alessia Candito
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