I racconti dell’orrore. Resi dai due “capi” di una mafia potente e sottovalutata, divenuta nel tempo strisciante e insidiosa sia nel capoluogo bruzio che nella Sibaritide . È la mafia degli “zingari” che ha già lungamente sperimentato alle nostre latitudini ciò che solo ora si sta scoprendo a Roma. Una mafia che conta su solidi legami parentali, ampia disponibilità di armi e sui rapporti ormai consolidati con le cosche del Cirotano e della Piana di Gioia Tauro.
I settori d’interesse sono variegati – come riporta la Gazzetta del sud oggi in edicola -: vanno dal traffico e lo spaccio di stupefacenti alle estorsioni, passando per la gestione dei subappalti, l’imposizione delle guardianie e il condizionamento delle pubbliche amministrazioni.
Una mafia già raccontata nel 2001 dal di dentro da Franco Bevilacqua, detto “Franco i Mafarda”, boss di Cosenza e, poi, da Franco Bruzzese, padrino nel terzo millennio della “Nuova famiglia” figlia di un accordo tra i criminali nomadi bruzi e quelli “italiani”.
I due “capi” pentiti hanno consentito agli inquirenti di leggere i retroscena di strategie criminali e fatti di sangue diventati determinanti per l’affermazione di questa aggressiva e poco conosciuta “mafia” difficile da infiltrare e con un bassissimo numero di “gole profonde”.
E se Bevilacqua ha svelato patti e delitti collegati ai lavori di ammodernamento della Salerno-Reggio Calabria, Bruzzese ha invece con le sue dichiarazioni gettato un fascio di luce sulle ombre che nascondevano autori e mandanti di efferati crimini rimasti fino al momento impuniti.
Entrambi hanno permesso al procuratore Nicola Gratteri e al pm Camillo Falvo della Dda di Catanzaro di ricostruire, dopo 18 anni, i ruoli esercitati dai presunti responsabili della “strage di via Popilia” costata due morti e un ferito in una sera di autunno del 2000.
Bruzzese ha parlato pure di tre sparizioni. Confessando che Gianfranco Iannuzzi, detto “a ‘ntacca”, azionista dal polso fermo legato al boss Bevilacqua – il quale nel gennaio del 2001 aveva già cominciato a collaborare con la giustizia – svanì nel nulla il lunedì di Pasquetta di quello stesso anno. «Fu eliminato perché aveva partecipato alla strage di via Popilia – ha raccontato – e si temeva che potesse diventare pentito come Franco Bevilacqua. Se si sospettava che qualcuno potesse andare a dare conferma alle confessioni del boss pentito veniva subito eliminato. Lo eliminavano e buonanotte, senza pensarci due volte».
Iannuzzi venne perciò attirato in un tranello ed ucciso nelle campagne di Cassano dove i suoi resti sono poi stati ritrovati. «La stessa cosa accadde con Benincasa – aggiunge Bruzzese – che fu fatto sparire perchè aveva partecipato all’omicidio di Antonio Forastefano a Cassano e si temeva che potesse parlare. Non solo: nell’occasione del delitto aveva sbagliato lasciando il killer a piedi. Fu perciò ritenuto pericoloso e inaffidabile».
Antonio Benincasa, detto “Vallanzasca”, fedelissimo autista di Franco Bevilacqua e stabile componente della gang che il capobastone pentito aveva costituito per compiere rapine ai furgoni blindati in tutto il Cosentino, venne ingoiato dalla lupara bianca nel maggio del 2003.
Gli investigatori ritrovarono l’auto che solitamente usava la vittima, regolarmente parcheggiata in un quartiere periferico della città. Della “batteria” di rapinatori di cui Benincasa era componente fisso, faceva peraltro parte lo stesso Franco Bruzzese, all’epoca ritenuto il miglior tiratore di kalashnikov presente sulla piazza.
E sempre Bruzzese ha parlato della scomparsa di Sestino Bevilacqua, un lavoratore socialmente utile, rapito nell’area cosentina di Bosco De Nicola e poi ucciso e sepolto chissà dove. «Si sparse la voce – spiega – che Sestino era stato convocato dai carabinieri per la questione della bomba collocata nella caserma in costruzione. E che lì aveva incontrato Franco Bevilacqua che voleva che gli confermasse il fatto della bomba. Saputo dell’incontro, intimoriti da una sua possibile collaborazione, fecero sparire pure lui».
Chi lo sequestrò? Impossibile al momento offrire una risposta. È certo, però, che le inchieste sulle uccisioni di Benincasa e Bevilacqua sono state ovviamente riaperte dalla Dda di Catanzaro dopo le rivelazioni del collaboratore.
Franco Bruzzese, è stato condannato con sentenza definitiva nella veste di mandante (reo confesso) dell’omicidio di Luca Bruni, reggente dell’omonimo clan, assassinato nel gennaio del 2012. Il boss ora pentito era stato affiliato per la prima volta alla ’ndrangheta nel 2000, raggiungendo successivamente i massimi gradi della gerarchia mafiosa grazie ad una serie di “cerimonie” avvenute tra il 2004 e il 2013 alle quali presero parte personaggi del calibro di Michele Bruni di Cosenza e Pasquale Arena di Isola Capo Rizzuto.
Franco Bevilacqua, invece, non solo era stato “battezzato” ’ndranghetista alle fine degli anni ’90 ma, addirittura, era da tempo pure affiliato ad una cellula della Sacra Corona Unita leccese.
Fonte Gazzetta del Sud