REGGIO CALABRIA – Per tutti sono professionisti noti e stimati, ma in realtà sono i colletti bianchi che hanno permesso alla ‘Ndrangheta di mettere le mani sulle società del Comune di Reggio Calabria. E grazie a queste manovre hanno messo in tasca quasi 12 milioni di euro di fondi comunali.
Otto fra manager e imprenditori che in passato hanno gestito la Multiservizi, la più grande partecipata del Comune reggino, poi sciolta per mafia, sono stati arrestati oggi dalla Guardia di Finanza per bancarotta fraudolenta. Ai domiciliari su richiesta della Dda di Reggio Calabria, guidata da Giovanni Bombardieri, sono finiti Michelangelo Tibaldi, il figlio Michele, Pino Rechichi e i figli Antonino e Giovanni, Pietro Cozzupoli e Lauro Mamone, tutti raggiunti anche da un decreto di sequestro per 5 milioni di euro. Si tratta dei professionisti che negli anni si sono avvicendati all’interno della società mista Multiservizi, della Gst, il socio privato che ne deteneva il 49%, e delle tre controllate che lo componevano.
Fra gli indagati invece, c’è anche l’ex sindaco di Reggio, poi governatore della Regione, Giuseppe Scopelliti, attualmente in carcere per il falso di bilancio con cui è stato coperta la voragine finanziaria del Comune. È stato lui a firmare il patto parasociale che ha regalato ai privati il controllo della municipalizzata, permettendo loro di spolparla.
Nomi noti in città, per i magistrati gli otto arrestati oggi avevano costituito un vero e proprio sistema per dirottare i fondi destinati alla manutenzione delle reti idriche, delle strade del verde pubblico e persino della manutenzione degli uffici giudiziari su società o soggetti a loro ricollegati. Era una vera e propria “cricca” che sotto l’ombrello della ‘Ndrangheta ha prosperato.
Mentre in città i servizi sociali erano ridotti al lumicino e l’illuminazione pubblica veniva erogata a singhiozzo per le morosità accumulate, imprenditori e manager arrestati oggi si assegnavano mutuamente consulenze per decine di migliaia di euro, “dimenticavano” di chiedere indietro l’anticipo di 240mila versato per acquistare un palazzo di proprietà di uno dei soci che improvvisamente rinunciavano a comprare, si autoliquidavano ingiustificabili premi di produttività per milioni. E poi c’erano debiti condonati, compensi liquidati dai padri ai figli o dagli imprenditori alle proprie società per servizi inesistenti o progetti non necessari.
Per il procuratore aggiunto Gerardo Dominijanni, che ha coordinato l’indagine, “c’è stato un drenaggio scientifico e spudorato di denaro del Comune, un sistema studiato ben prima che venisse firmato il contratto fra l’amministrazione e il socio privato”. Due anni prima – fanno notare gli investigatori – Paolo Romeo, considerato al vertice della direzione strategica della ‘Ndrangheta reggina, parla dell’elezione di Scopelliti a sindaco della città come cosa fatta proprio in virtù dell’affare Multiservizi.
Per adesso, nei confronti degli otto imprenditori finiti ai domiciliari non ci sono accuse di ‘Ndrangheta. Ma, lo ha detto chiaramente il procuratore Bombardieri, potrebbero arrivare a breve. “Questa è solo una tessera di un’indagine più complessa, che deve essere raccordata con quanto già emerso sull’infiltrazione della criminalità organizzata della Multiservizi”. E anche la posizione degli imprenditori – alcuni dei quali già in passato inquadrati come braccio finanziario dei clan – potrebbe cambiare. All’accusa di bancarotta se ne potrebbero aggiungere altre, ben più gravi.
La Multiservizi – è già stato provato – era cosa del clan Tegano, che se ne occupava per conto delle famiglie di Archi, espressione dell’élite della ‘Ndrangheta cittadina. Sebbene nel tempo le società che si celavano dietro il socio privato abbiano formalmente cambiato nomi e proprietari, identica è rimasta l’identità economica e gestionale. Uguali anche i beneficiari ultimi dell’affare. Nel corso degli anni, i Tegano hanno continuato ad attingere dai fondi del Comune di Reggio Calabria, che già avanzava a grandi passi verso il cratere di bilancio, che oggi costa alla città un piano di rientro trentennale.
Tutto possibile grazie alle manovre di alcuni dei manager finiti oggi in manette, che hanno regolarmente distratto e dissipato i fondi comunali, mentre i clan crescevano, ingrassavano, costruivano il loro consenso sociale anche grazie a centinaia di assunzioni pilotate. Un piano di cannibalizzazione studiato in dettaglio dai massimi vertici dei clan di Reggio Calabria e portato avanti – hanno svelato inchieste del passato – grazie ai politici che la ‘Ndrangheta ha scelto, forgiato e poi sostenuto all’interno delle istituzioni locali.
Pietra angolare degli accordi fra le famiglie mafiose di Reggio Calabria, che proprio sulle società miste hanno costruito gli equilibri criminali e il proprio impero economico, finanziario e di consenso, “la spartizione da parte della ‘Ndrangheta delle cosiddette società miste – si legge nella sentenza Gotha – è stata in primo luogo attuata attraverso la penetrazione nel tessuto politico locale (che ha in primo luogo creato le condizioni di esistenza delle predette società a partecipazione prevalentemente pubblica) e, successivamente, realizzata per mezzo dell’indebita azione di gestione delle cosiddette aziende municipalizzate da parte di singoli esponenti politici locali, per scopi apparentemente elettorali, ma in realtà utili a soddisfare gli interessi criminali delle cosche di cui, spesso, il singolo esponente politico era espressione