L’operazione Scattò nel novembre del 2012. La Polizia di Stato, nelle Preserre vibonesi, strinse le manette agli armieri di una faida e recuperò un arsenale. Fu chiamata operazione “Calibro 12”. Non sapevano i poliziotti della squadra Mobile di Vibo, allora guidati dall’attuale capo della Dia di Catanzaro Antonio Turi, che quel blitz contribuì a sventare il piano per far evadere dal carcere il boss ergastolano Bruno Emanuele, che nel 2002, assassinando i vertici del clan Loielo (i fratelli Vincenzo e Giuseppe uccisi nel 2002 nei pressi dell’acquedotto di Gerocarne), divenne il padrone di un crocevia mafioso fondamentale nel Vibonese, quello di Ariola e Sorianello. Quel blitz fu provvidenziale per sventare il piano di fuga. Lo rivela ai pm della Dda di Catanzaro il collaboratore di giustizia Raffaele Moscato, killer del clan dei Piscopisani che, con gli uomini più fidati di Bruno Emanuele, aveva tenuto diversi incontri preparatori per la clamorosa evasione. E il boss detenuto – dal canto suo – in carcere si sarebbe procurato perfino un filo di quelli utili a segare le sbarre. 

E’ a questo punto che Moscato svela come funzionasse la vita in carcere. Quasi tutti i penitenziari avevano i cosiddetti “detenuti capo sezione”: le figure più rappresentative della ‘ndrangheta nel territorio in cui si trovava la casa circondariale. Catanzaro in particolare, rivela Raffaele Moscato, sarebbe stato a suo dire una “sorta di luogo di divertimento e socialità per i detenuti” dove sarebbe passato di tutto, grazie alla presunta complicità di alcuni agenti della penitenziaria, sui quali sono ancora in corso le indagini, ed ai buoni uffici dei «capi sezione», indicati dal collaboratore di giustizia in: Salvatore Nicoscia, Giuseppe Cosco e Cecè Lentini, tutti del Crotonese. Ai Piscopisani, ad esempio, sarebbe arrivata in carcere perfino la grappa barricata. 

C’era un carcere, però, molto diverso in Calabria.  “A Vibo Valentia – spiega Raffaele Moscato – non ci sono responsabili in quanto è un carcere duro, le guardie sono serie. Le guardie sono serie, non come a Catanzaro. E’ proprio la gestioneche è dura. Catanzaro non è un carcere, è un circolo ricreativo – afferma il collaboratore – dove la gente gioca, come del resto è anche Frosinone”. Accuse, quelle del collaboratore di giustizia vibonese, all’attenzione dei magistrati della Dda di Catanzaro che sono alla ricerca dei riscontri ed impegnati a capire se la situazione – rispetto agli anni ai quali si riferisce l’esperienza di Moscato in carcere (ha deciso di collaborare nel marzo 2015) – sia ad oggi cambiata. Uno spaccato, in ogni caso, che rischia di far finire nei guai più di qualche agente della polizia penitenziaria che potrebbe essere venuto pericolosamente a contatto con detenuti di spicco favorendoli durante la detenzione.