di AMDuemila
“I collegamenti ed i rapporti” di Femia “con esponenti di organizzazioni mafiose non sono determinanti per dare la medesima qualificazione al gruppo da lui costituito che, una volta sorto ed in piena operatività, deve acquisire autonoma vitalità, non mutuabile dal carisma soggettivo del capo e tantomeno dalle relazioni personali di quest’ultimo”. E’ così che i giudici della Corte d’Appello di Bologna, nelle oltre 300 pagine di motivazioni della sentenza emessa lo scorso 29 ottobre, hanno spiegato le ragioni che li hanno portati a far cadere l’accusa di associazione mafiosa nei confronti di Nicola ‘Rocco’ Femia nell’ambito del processo Black Monkey, che lo vedeva come principale imputato. Il processo è nato dall’inchiesta della Guardia di Finanza e della Dda di Bologna su un’associazione ritenuta dall’accusa di stampo mafioso e guidata proprio da Femia che aveva creato un impero del gioco d’azzardo illegale, a partire dall’Emilia-Romagna in diverse parti d’Italia. In appello l’imputato ha ricevuto una riduzione della pena a 16 anni di detenzione (in primo grado era stato condannato a 26 anni e 10 mesi) proprio perché, secondo la Corte, il gruppo che faceva profitti con le slot non era legato alla ‘Ndrangheta, ma si configurava una associazione ‘semplice’. Per gli stessi motivi anche i 23 imputati hanno ricevuto una condanna inferiore rispetto a quella di primo grado. E non mancarono anche alcune assoluzioni. “Manca – si legge ancora nelle motivazioni di sentenza – la prova di un esercizio concreto e percepito fra i cittadini della forza di intimidazione, che deve derivare direttamente dal sodalizio e non dal singolo Femia Nicola”. Inoltre secondo i giudici di secondo grado, il ricorso a metodi intimidatori tipici di contesti criminali organizzati, “non connota, di per sé, il gruppo degli autori come mafiosi, ovvero come appartenenti ad un nucleo dotato di autonoma consistenza in grado di produrre effetti intimidatori a prescindere dalla realizzazione di singole condotte delinquenziali e di creare un’entità prevaricante e totalizzante”. Entità, hanno spiegato i giudici, davanti alla quale, “non solo i non associati, ma anche gli stessi associati, non hanno altra scelta che piegarsi ed asservirsi per evitare reazioni estorsive di qualsiasi genere”. In questo caso, invece, prendendo ad esempio alcune condotte estorsive, viene sottolineato come “non furono esplicative di uno stabile, costante ed imprescindibile ‘modus operandi’ del sodalizio, ma al contrario, determinate da fattori contingenti in risposta all’operato delle stesse vittime”.
“Tizian venuto a conoscenza delle minacce dalla stampa”. Il giornalista: “Non è vero”
Nelle motivazioni della sentenza i giudici si sono soffermati anche sulla vicenda del giornalista dell’Espresso Giovanni Tizian, parte civile nel processo. I fatti risalgono al 19 dicembre 2011 quando, al telefono con Nicola Femia, l’imprenditore Guido Torello, al quale era stato contestato il concorso esterno nell’associazione mafiosa, confessò il proprio fastidio per gli articoli scritti da Tizian sulla Gazzetta di Modena arrivando a minacciare il giornalista: “O la smette o gli sparo in bocca”. La Corte, però, ha affermato che “nessuna specifica imputazione per eventuali reati fine posti in essere in danno di Tizian, non risulta formulata nel presente procedimento né a carico del Torello né del Femia”. Lo stesso Tizian, finito “sotto protezione senza che ne conoscesse il motivo”, era venuto a sapere delle “ipotetiche minacce” soltanto il 23 gennaio 2013, dalle notizie di stampa. “Né la dichiarazione intimidatoria che, però, mai aveva raggiunto la vittima, era stata seguita da altre forme di intimidazione”. Tizian, inoltre, aveva riferito in dibattimento che “soltanto dopo il 23 gennaio 2013 la sua attività di giornalista era stata ostacolata, ma solo perché sotto protezione, non già per condotte mafiose, intimidazioni o minacce poste in essere da qualcuno”. Quindi, ha concluso la Corte d’Appello, “neanche dalla considerazione di tale episodio possono trarsi elementi a favore della tesi accusatoria”. Di tutt’altro parere è invece la vittima di quelle intimidazioni che all’AdnKronos ha rilasciato dichiarazioni a seguito delle considerazioni dei giudici sull’episodio. “Forse avrebbero dovuto tagliarmi una gamba, non ne posso più” ha commentato Tizian. “Non è vero che l’ho saputo dalla stampa che mi minacciavano – ha spiegato il giornalista – il 20 dicembre 2011, il giorno dopo la telefonata, sono stato convocato d’urgenza dalla squadra mobile di Modena, è stata mandata una pattuglia di agenti in borghese a prelevarmi e mi è stato comunicato che, da quel giorno, mi assegnavano la scorta”. “Perciò – ha precisato – fin da quella data sapevo che ero minacciato, non mi avevano fatto il nome di chi c’era dietro, però mi hanno fatto domande su Femia e Torello e mi avevano spiegato che ero in pericolo. Poi, subito dopo, sono stato sentito come persona informata dai fatti dalla Dda di Bologna e, solo nel 2013 – ha concluso – sono uscite le notizie di stampa sulle minacce contro di me”.