Erano ritenuti i “padroni” della costa. Trentasette persone sono state raggiunte da ordinanze di custodia cautelare firmate dal gip distrettuale di Catanzaro, Giuseppe De Salvatore, su richiesta del procuratore Nicola Gratteri, dell’aggiunto Vincenzo Capomolla e del pm antimafia Romano Gallo. Diciotto le persone finite in carcere (alle altre applicati gli arresti domiciliari o l’obbligo di dimora) con l’accusa di far parte di un’associazione mafiosa riconducibile ai clan Tundis e Calabria attivi nell’area compresa tra Paola, Belmonte, San Lucido e Longobardi.
In tutto gli indagati sono 46. Tra questi anche i picciotti paolani. S.C. ritenuto il reggente proprio del gruppo paolano legato al Clan. Ma, molti erano impiegati quali “manovalanza” della malavita, dediti allo spaccio della droga e alle intimidazioni delle aziende sotto la lente del racket.
È il caso di E.L. e P.V. Marito e moglie finiti entrambi in carcere, per spaccio di sostanze stupefacenti. Il primo, personaggio già noto alle forze dell’ordine sarebbe stato protagonista – stando alle prime ricostruzioni – anche di un diverbio con “Il rigattiere di Lamezia” colpevole di non aver tenuto fede ad un ritiro di ferro vecchio che avrebbe causato una figuraccia “apparata” con un pegno da pagare. Restano da capire anche i ruoli di altri soggetti finiti al centro dell’inchiesta e già noti per reati di spaccio. Nessuno dei picciotti paolani però farebbe parte del gruppo dirigente del clan.
Tra le persone coinvolte nell’operazione condotta dai carabinieri figura il boss pentito di Cosenza Roberto Porcaro. L’ex esponente di punta delle cosche “confederate” operanti tra Cosenza e Rende collabora con i magistrati antimafia da più di un mese e manteneva rapporti con i gruppi Tundis e Calabria. Porcaro, le cui dichiarazioni non sono contenute negli atti dell’inchiesta notificati stamane, avrebbe mantenuto solidi e stabili rapporti con le due consorterie Tundis e Calabria operanti lungo la fascia costiera compresa tra Paola e San Lucido. I reati contestati I provvedimenti restrittivi sono stati eseguiti dai carabinieri del comando provinciale di Cosenza, coordinati dal colonnello Agatino Saverio Spoto e le indagini condotte dagli investigatori della compagnia di Paola. I delitti contestati sono l’associazione mafiosa, l’estorsione, la tentata estorsione aggravata, il trasferimento fraudolento di valori, la detenzione e il porto di armi e il traffico di sostanze stupefacenti (cocaina, marijuana e hashish).
La consorteria mafiosa imponeva il pagamento del “pizzo” alle imprese impegnate nei lavori pubblici e alle aziende private che lavoravano nel settore dell’edilizia. Non solo: ai clan dovevano pagare dazio commercianti e imprenditori piccoli e grandi operanti nei settori più svariati. Al gruppo dominante dovevano inoltre rivolgersi tutti i pusher della zona, pena gravi conseguenze. Le indagini si basano su intercettazioni ambientali e telefoniche, videoriprese, pedinamenti e non hanno contato sull’apporto significativo di collaboratori di giustizia.