di Gianluca Di Feo
Fonte: La Repubblica
La prima analisi della zona grigia
“La retorica della legalità offre alla politica il pretesto per non agire. E la non valorizzazione dei beni confiscati finisce per ostacolare il recupero“
Che la mafia ormai sia inserita con forza nell’economia italiana lo dicono tutti. I boss da sempre sanno gestire mediazioni e tessere reti, sono maestri di brokeraggio e networking: le caratteristiche perfette per essere protagonisti dei mercati. Il problema è definire le forme di questo “capitalismo criminale”, un ibrido mostruoso che rischia di cambiare le regole del gioco imprenditoriale. Perché “da un lato la mafia è in grado di adattarsi all’ambiente circostante, dall’altro lo condiziona, plasmandolo a sua volta“. Ora un saggio scritto da due dei migliori esperti, i sociologi Rocco Sciarrone e Luca Storti, affronta per la prima volta in modo analitico gli snodi della questione proponendo una strategia di intervento pragmatica, contraria alla retorica dominante. “Le mafie nell’economia legale“, edito dal Mulino , rappresenta un punto di svolta nella materia e fa luce sulla zona grigia dell’intreccio tra clan e aziende.
La grande recessione ha trasformato i boss nei referenti ideali di quegli imprenditori che cercano una scorciatoia per sopravvivere e battere la concorrenza. Soprattutto al Nord il “capitalismo criminale” ha rapidamente attecchito sull’antica fragilità del sistema produttivo. Evasione fiscale, abusivismo e speculazione edilizia, lo smaltimento spregiudicato dei rifiuti sono i settori in cui industriali e cosche si sono incontrati. L’intesa poi si è evoluta nella corruzione, per ottenere permessi ed evitare controlli, contaminando l’intero Paese.
E adesso da Sud a Nord i colletti bianchi “al fine di garantirsi l’impunità, si mobilitano per cambiare la definizione della realtà o per oscurarla, mettendo in atto strategie di negazione o di neutralizzazione, di giustificazione o di normalizzazione, o ancora di vera e propria decriminalizzazione“. Sì, sta mutando persino la percezione morale: il patto con i clan non crea più un disvalore sociale o un danno alla reputazione. E c’è una statistica sconvolgente: “Sul totale dei soggetti denunciati e arrestati per mafia tra il 2008 e il 2018, la professione più rappresentata è proprio quella di imprenditore. Essa è infatti pari al 22% delle persone di cui è indicata la categoria professionale (oltre 31.000)”.
La parte più innovativa del saggio è però quella in cui si esaminano i modelli di intervento. “La nostra tesi è che siano necessari strumenti differenziati non solo per tutelare e incentivare alla denuncia gli imprenditori vittime della mafia (i bianchi) e, sull’altro versante, per reprimere gli imprenditori organici alla mafia (i neri), ma anche per disfare la rete delle contiguità (i grigi), distinguendo all’interno dell’area grigia diversi livelli di compromissione e complicità“. L’idea è “che si debba intervenire con il bisturi, più che con l’accetta: comprendere i tratti specifici del nodo patologico che si trova di fronte e reciderlo in modo minuzioso, riuscendo a essere repressivi quanto basta, invasivi quanto necessario“.
Oggi invece il sistema di prevenzione e repressione non funziona perché non tutela la sopravvivenza delle imprese, quasi sempre uccise dagli interventi dello Stato, con la perdita di lavoro e di risorse. Lo testimoniano migliaia di immobili e centinaia di aziende confiscate e poi abbandonate nella desolazione. Bisogna invece cambiare rotta: “L’obiettivo di fondo è dunque quello di garantire rigenerazione e futuro alle imprese“. E allo stesso tempo “allontanare in modo duraturo i grigi dai neri, spingendoli a diventare bianchi. D’altra parte, allo stato attuale essere bianchi – ovvero non ricorrere ai servizi della mafia – costa fatica; è quasi espressione di eroismo. Questa è una condizione insostenibile: l’obiettivo ultimo dovrebbe essere rendere il bianco un colore più conveniente“. Semplice, no? E allora perché non accade? C’è anzitutto un approccio distorto: “Appare diffuso un atteggiamento idealista in base al quale i beni sottratti al controllo della mafia tendono a essere considerati prevalentemente in termini di valore simbolico mentre si guarda con sospetto qualsiasi soluzione che miri a valorizzarne le potenzialità economiche, reimmettendoli nei circuiti della produzione“.
Allo stesso modo, la retorica del populismo giudiziario sbandiera una soluzione fin troppo facile: l’aumento delle pene. Scrivono Sciarrone e Storti: “La legalità – declinata spesso semplicisticamente in onestà – è diventata da tempo nel nostro Paese una posta in gioco rilevante della contesa politica, in grado di veicolare protesta e di aggregare consenso. A tal fine si ricorre sempre più a un uso disinvolto – e, non di rado, strumentale – della liturgia antimafia, mettendo in scena uno scontro frontale tra buoni e cattivi. È proprio questo tipo di rappresentazione che costituisce tuttavia uno schermo per non affrontare la questione dal punto di vista politico“.
Insomma, la strada per affrontare il problema c’è. Bisogna però che governo e Parlamento ne prendano atto con “una politica programmante e non moraleggiante, una politica che guardi lontano e che sappia distinguere“. Chissà se i prossimi ministri se ne occuperanno.