Da Iacchite -27 Luglio 2019

Che ci fossero legami stretti tra gli squallidi protagonisti principali di “Mafia Capitale” o se preferite del “Mondo di mezzo” ovvero Salvatore Buzzi e Massimo Carminati e il clan Mancuso di Limbadi era apparso già chiaro tra la fine del 2014 e l’inizio del 2015 quando erano stati arrestati due calabresi.

“Il clan di Massimo Carminati è da anni in affari con il clan ‘ndranghetista dei Mancuso di Limbadi”. È quanto scrivevano i giudici del Riesame nelle motivazioni con cui avevano in un primo tempo respinto le istanze di scarcerazione di Rocco Rotolo e Salvatore Ruggiero (arrestati l’11 dicembre 2014 dai carabinieri del Ros), ritenuti dalla Procura l’anello di congiunzione tra la ‘ndrangheta calabrese e Mafia Capitale.

Secondo le indagini della Procura di Roma il primo – Rocco Rotolo – era dipendente della Cooperativa 29 giugno, guidata da Salvatore Buzzi (l’uomo delle coop e braccio destro di Carminati), il secondo – Salvatore Ruggiero – lo era stato fino al 1999, e dal 2009 alla Roma Multiservizi spa presieduta da Franco Panzironi, ex numero uno dell’Ama, l’azienda dei rifiuti, anche lui arrestato nel blitz su Mafia Capitale.

In particolare, l’appalto per la pulizia del mercato Esquilino, a Roma, sarebbe stato garantito in cambio della “protezione”, in Calabria, alle cooperative della ‘cupola’ che si occupavano dell’assistenza ai migranti. Secondo l’accusa, gli arrestati assicuravano il collegamento tra alcune cooperative gestite da Buzzi, sotto il controllo di Carminati, e la cosca Mancuso di Limbadi (Vibo Valentia), uno dei clan più potenti della ‘ndrangheta, egemone nel Vibonese e protagonista del narcotraffico internazionale anche grazie a legami diretti in Colombia.

Secondo i magistrati del Riesame, Carminati e Salvatore Buzzi avevano costituito la coop Santo Stefano, onlus destinata a gestire proprio l’appalto per la pulizia del mercato Esquilino.

“La nascita della cooperativa – si leggeva ancora nel provvedimento – avrebbe costituito la conferma del rapporto tra l’associazione mafiosa romana e il clan Mancuso che aveva già portato a proficui affari in Calabria”. Rotolo e Ruggiero “sarebbero stati di fatto accreditati su richiesta di Buzzi presso la famiglia Mancuso che come proprio referente per le attività a Roma aveva indicato l’imprenditore Giovanni Campenni“.

Già nella prima fase dell’operazione Mafia capitale era stato perquisito Campennì ed erano emersi, secondo gli inquirenti, gli interessi comunidei due sodalizi mafiosi ed in particolare, dal luglio 2014, come Buzzi, con l’assenso di Carminati, avesse affidato la gestione dell’appalto per la pulizia del mercato Esquilino di Roma a Campennì, mediante appunto la creazione della Santo Stefano.

Rotolo e Ruggiero, secondo i magistrati del Riesame, “sono soggetti pericolosi per la collettività e da sempre gravitanti nell’ambito di organizzazioni criminali organizzate”. Nel provvedimento di oltre 40 pagine, i giudici ricostruiscono la storia criminale dei due a cui viene contestata l’associazione a delinquere di stampo mafioso. Parlando di Ruggiero, in particolare, il tribunale scrive che “sin dagli anni ’90 aveva frequentazioni con elementi di spicco della ‘ndrangheta calabrese e in particolare con Girolamo Mole detto U Gangiu” mentre Rotolo “risulta collegato, e non solo per ragioni di parentela, con il clan Piromalli di Gioia Tauro“. Per il Riesame, “entrambi gli indagati trasferitisi a Roma non hanno evidentemente perduto i contatti con la criminalità organizzata calabrese tanto da avere accettato l’incarico da parte di Buzzi di prendere contatto con la cosca Mancuso di Limbadi”. Per i magistrati romani, i due “avevano a disposizione anche armi”.

Ma, nonostante tutto questo carico di accuse, Rotolo e Ruggiero, nel corso del 2017, sono stati scagionati A seguito del giudizio di primo grado, la cui sentenza era stata pronunciata il 20 luglio, gli stessi erano stati assolti “per non aver commesso il fatto” e scarcerati dopo più di due anni e mezzo di custodia cautelare in carcere. E l’assoluzione è stata confermata anche in Appello a settembre del 2018.

Giovanni Campennì, invece, è tornato alla ribalta delle cronache qualche giorno fa perché la Dda di Catanzaro, diretta dal procuratore Nicola Gratteri, gli ha sanzionato un pesante sequestro beni per 800 mila euro e in particolare per due ditte individuali, con sede a Nicotera, di commercio all’ingrosso di mezzi e attrezzature da trasporto e di trasporto merci su strada (intestata alla moglie), due fabbricati e un terreno a Nicotera, tre auto e diversi rapporti bancari e finanziari.

Ma chi è Giovanni Campennì? Ce lo spiegano gli atti di una sua tragicomica deposizione al processo di “Mafia Capitale” del dicembre 2016.

Legato al clan di ‘ndrangheta dei Mancuso, l’imprenditore Giovanni Campennì fa sfoggio di un’ingenuità che, nell’aula bunker, porta spesso male a chi la interpreta (vedi l’ex ispettore di Ponte Milvio, amico di Massimo Carminati, che, pigiando troppo l’acceleratore della rappresentazione naif, s’è imbattuto nell’incriminazione per falso). Come teste degli avvocati di Salvatore Buzzi, l’imprenditore di Vibo Valentia, specializzato nel business della raccolta dei rifiuti, e indagato in un procedimento collegato, avrebbe dovuto demolire un segmento dell’accusa, ossia le pericolose protezioni di cui godeva il fondatore della 29 giugno così come erano state descritte dal capitano del Ros Giorgio Colaci.

Invece la rappresentazione del piccolo imprenditore legato a Buzzi da amicizia «più che fraterna» e spinto da amore disinteressato a fare la spola con la Capitale perché «Buzzi con me si sfogava» resiste lo spazio del controesame. Non solo perché la pretesa amicizia non basta neppure a garantire la presenza di Buzzi al funerale del padre di Campennì (Eugenio Campennì, la cui coop Proserpina era incappata nell’interdizione per mafia della prefettura locale). Ma anche perché – secondo le intercettazioni lette dal pm Luca Tescaroli – il vero motivo di quella spola era garantire una comunicazione fluida fra l’intercettato Buzzi e lo stesso Campennì, al quale era anche stato ceduto un cellulare schermato che, però, avrebbe preferito non utilizzare ritenendolo ugualmente rischioso.

Convinti che il legame fra ’ndrangheta e Mondo di Mezzo sia fragile, gli avvocati di Buzzi, Diddi e Santoro, sottolineano nell’esame come la coop Santo Stefano che avrebbe dovuto rilevare quota parte del business di Buzzi a Roma, cominciando dalle pulizia al mercato dell’Esquilino, ebbe vita breve e fallimentare. Ma alla procura restano altre carte. Dai precedenti penali nel curriculum vitae di Campennì e famiglia compatibili con il carattere mafioso dei Mancuso (lui una condanna per tentata estorsione, suo fratello un’altra per associazione finalizzata al traffico di stupefacenti) ai redditi percepiti dall’imprenditore calabrese per la gestione della casa d’accoglienza di Cropani Marina da parte della 29 giugno. Nel pomeriggio è Carminati a prendere la parola: «Non ho incontrato Campennì prima del 2012 e comunque con lui non ho mai parlato di questioni di lavoro».

Da allora sono passati due anni e mezzo e il recentissimo sequestro beni nei confronti dell’imprenditore lascia pensare che ci sia ancora dell’altro da tirare fuori. Chi vivrà, vedrà…