Sono state depositate dalla sesta sezione penale della Cassazione le motivazioni della sentenza con la quale il 14 maggio scorso si è chiuso lo storico processo nato dall’operazione antimafia “Genesi” che ha colpito la ‘ndrangheta del Vibonese. Un blitz scattato nell’agosto del 2000 ma che prendeva le mosse ancor prima dall’operazione “Metropolis” della Procura di Vibo Valentia, le cui udienze sono state interrotte nel 1999 per l’emergere di un’associazione mafiosa.
Quaranta inizialmente gli imputati e ben quattro anni per registrare – nel 2004 – il rinvio a giudizio dopo la retata dell’agosto del 2000. Ci sono voluti nove anni per arrivare – maggio 2013 – alla sentenza di primo grado da parte del Tribunale collegiale di Vibo Valentia, mentre il verdetto d’appello risale al 28 febbraio dello scorso anno. Questa la sentenza della Suprema Corte che ha confermato la sentenza di secondo grado per: Nazzareno Prostamo, 57 anni, di San Giovanni di Mileto, condanna a 13 anni (avvocato Piero Chiodo); Diego Mancuso, 63 anni, di Limbadi, condanna a 6 anni di reclusione (avvocato Valerio Spigarelli); Francesco Mancuso, 62 anni, detto “Tabacco”, di Limbadi (avvocati Giuseppe Di Renzo, Guido Contestabile e Francesco Schimio), condanna a 6 anni; Giuseppe Santaguida, 58 anni, di Sant’Onofrio (avvocati Antonio Foti e Antonietta Gigliotti Denicolò), condanna a 6 anni; Nicola Zungri, di Rosarno, originario di San Calogero, condanna a 6 anni (avvocato Francesco Collia) in luogo dei 9 anni rimediati in primo grado (due capi d’imputazione si sono prescritti in secondo grado). Unico annullamento (senza rinvio) per prescrizione quello deciso nei confronti di Pantaleone Mancuso, 57 anni, detto “l’Ingegnere”, originario di Limbadi, residente a Nicotera, che in appello era stato a 6 anni (avvocati Mario Bagnato e Mario Santambrogio). Gli imputati rispondevano tutti di associazione mafiosa. Prostamo anche di alcuni reati-fine.
Per provare l’associazione mafiosa, la Cassazione ritiene corretto l’operato dei giudici di merito laddove hanno ricavato tale dato dalla condanna irrevocabile emessa nel processo “Tirreno” (celebrato in primo grado in Assise a Palmi ed in appello a Reggio Calabria) dei boss Luigi e Giuseppe Mancuso (zio e nipote), quest’ultimo anche per alcuni omicidi commessi con l’uso di armi da fuoco unitamente ad affiliati al gruppo collegato dei Prostamo di San Giovanni di Mileto, in un arco temporale che va dal 1988 al 1993, antecedente ai fatti del procedimento “Genesi”. Il processo “Tirreno” è servito per acclarare giudiziariamente l’esistenza di una associazione mafiosa dei Mancuso alleata a quella preminente dei Molè-Piromalli di Gioia Tauro, tanto che nei confronti dei capi, Mancuso Luigi e Giuseppe, è stata emessa nel processo “Genesi” sentenza di proscioglimento per divieto di un secondo giudizio sul medesimo fatto. Come ulteriore riscontro dell’associazione mafiosa viene poi valorizzata la condanna definitiva nel processo denominato “Dinasty” per i fratelli Diego, Francesco e Pantaleone (detto “l’Ingegnere”) Mancuso emessa per fatti analoghi commessi nel periodo successivo a quello oggetto del procedimento “Genesi”. [Continua dopo la pubblicità]
I collaboratori utilizzati per provare l’associazione mafiosa con a capo Luigi e Giuseppe Mancuso sono stati: Michele Iannello di San Giovanni di Mileto, Giuseppe Morano di Laureana, Annunziato Raso (killer del clan Molè-Piromalli reo confesso di quaranta omicidi), Gaetano Albanese di Candidoni, Pietro Mancuso e Pietro Speranza di Reggio Calabria, Luigi Farris di Vibo Valentia, Carmelo Falduto di Mileto, Tommaso Mazza di Catanzaro, Angelo Benedetto di Dinami, Gerardo D’Urzo di Sant’Onofrio, Massimo Di Stefano di Lamezia Terme, Angiolino Servello di Ionadi
Per la Cassazione, le dichiarazioni dei collaboratori “formano un complesso motivazionale organico ed unitario, che rimane immune alle censure dei ricorrenti” ed è provata l’operatività mafiosa dei fratelli Diego e Francesco Mancuso sino a metà anni ’90, mentre per gli anni successivi interviene la sentenza dell’operazione “Dinasty”. I due fratelli si sarebbero dedicati sin dagli anni ’80 ad una vasta attività di usura, prendendo parte ad un’associazione mafiosa “armata e pericolosa”, con Diego Mancuso che avrebbe fatto da intermediario per l’usura praticata ai danni di Luigi Farris riscontrato a sua volta dai collaboratori di giustizia Tommaso Mazza ed Angiolino Servello. Il collaboratore Pietro Speranza ha invece attribuito un ruolo a Diego Mancuso nella riscossione delle percentuali spettanti alla famiglia Mancuso per le truffe poste in essere nella zona di loro competenza, mentre Massimo Di Stefano ha indicato Diego Mancuso come attivo pure nell’attività di recupero crediti attraverso minacce.
Quanto a Francesco Mancuso (detto “Tabacco”), per la Cassazione sono attendibili le dichiarazioni della teste Agnese Merli in ordine alla partecipazione dell’imputato al clan mafioso di Limbadi per come le sono state riferite dallo scomparso compagno Cesare Muggeri di Zambrone, così come vengono ritenute credibili le dichiarazioni di Angiolino Servello in ordine all’attività di usura praticata da “Tabacco” per conto del casato mafioso di cui fa parte.
Diverso il discorso per Pantaleone Mancuso, detto “l’Ingegnere”. Per la Cassazione, le dichiarazioni del teste Alfonso Carano sono state ritenute inattendibili dai giudici di secondo grado, mentre quelle del collaboratore di giustizia Pietro Speranza sono “prive di riscontri”. Manca la cd. “convergenza del molteplice” ed in ogni caso la fondatezza del motivo d’appello della difesa ha imposto alla Suprema Corte l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata nei confronti di Pantaleone Mancuso, atteso che il reato contestato è comunque ormai estinto per prescrizione “nel frattempo decorsa in data 1 agosto 2018”.
Attendibili le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Carmelo Falduto, Gaetano Albanese, Michele Iannello e Tommaso Mazza su Nazzareno Prostamo in ordine ad un suo specifico ruolo nelle rapine consumate dal gruppo mafioso di San Giovanni di Mileto, composto anche dal fratello Giuseppe Prostamo (ucciso il 3 giugno 2011 a San Costantino Calabro dal clan Fiarè do San Gregorio d’Ippona) e Pasquale Pititto. La Suprema Corte, inoltre, non dimentica che Tommaso Mazza (numero due del clan dei Gaglianesi di Catanzaro guidati dal boss Girolamo Costanzo) ha fornito indicazioni importanti pure per portare alla condanna di Nazzareno Prostamo e Pasquale Pititto (in altro processo) per l’omicidio nei primi anni ’90 di Pietro Cosimo, boss di Catanzaro ucciso su mandato del clan dei Gaglianesi, e che al gruppo di San Giovanni non aveva pagato una partita di eroina. Contro Nazzareno Prostamo, anche la testimonianza di Fortunato Ascoli, titolare di un’impresa di pompe funebri, vittima di una estorsione durata dieci anni, che ha riferito di avere riconosciuto nel ricorrente la voce dell’autore delle telefonate estorsive dopo averlo incontrato per strada e dopo avergli consegnato due milioni di lire a titolo di prestito che non gli sono mai state restituite, evidenziando che le prime richieste estorsive erano iniziate proprio con la richiesta di un prestito da parte di Prostamo. Anche su tale vicenda nella motivazione delle sentenze di merito si valorizzano come riscontro le dichiarazioni del collaboratore Michele Iannello che ha riferito che l’estorsione ai danni di Ascoli era stata gestita da Pasquale Pititto e da Prostamo Nazzareno”.
Nicola Zungri di San Calogero, residente a Rosarno, per la Suprema Corte è poi un affiliato al gruppo mafioso di San Giovanni di Mileto. Prescritta nei suoi confronti l’accusa di tentata estorsione ai danni di Antonio Currà e del figlio Vincenzo (richiesta di pagare 50 milioni di lire dopo gli spari alla loro attività commerciale e l’esplosione di una bomba), lo stesso viene ritenuto coinvolto nel settore degli stupefacenti per conto del boss Pasquale Pititto.
Infine Giuseppe Santaguida di Sant’Onofrio, sposato con una nipote dei Mancuso e ritenuto partecipe dell’associazione mafiosa. A chiamarlo in causa, il pentito Pietro Speranza di Reggio Calabria il quale dopo aver effettuato una truffa avrebbe consegnato 150 milioni di lire a Giuseppe Santaguida che si sarebbe trattenenuto la somma per sé tanto da avere poi contrasti con gli stessi Mancuso e con Pantaleone Mancuso, detto “l’Ingegnere” il quale si sarebbe recato a Torino da Speranza “per accertare se era vero che il nipote si era preso i centocinquanta milioni senza riconsegnarli”. Santaguida sarebbe inoltre intervenuto come “intermediario di Giuseppe Mancuso per il recupero di un prestito usurario fatto a Luigi Farris”. In foto dall’alto in basso: Luigi Mancuso, Giuseppe Mancuso, Diego Mancuso, Francesco Mancuso, Pantaleone Mancuso, Nazzareno Prostamo e Pasquale Pititto